Se i bordi nettamente definiti della fotografia segnano un limite, una “cornice disciplinare” – per citare John Tagg – dovrebbe essere evidente che raramente si trasgredisce il confine, il bordo dell’immagine. Perché siamo così passivi all’interno del processo fotografico, così pronti a cedere all’immagine e alle sue geometrie predeterminate? Cosa ci ha portato a presumere, nei nostri gesti e anche nelle nostre teorie, che una fotografia sia così fissa e regolare?

Ammettiamo non solo il contenimento della fotografia come un’immagine nettamente definita – anche se è più precisamente un accumulo di pixel – ma ci sottomettiamo anche all’affermazione che il significato della fotografia esiste in ciò che mostra.

Abbiamo posto la rappresentazione prima del gesto, prima dell’atto. Forse questo ha a che fare con il modo in cui la teoria fotografica fissa l’immagine e il suo malinconico rapporto con la morte: siamo rassegnati all’immagine che sfugge alla nostra intenzione originaria e diventa un documento con qualche scopo informativo alternativo che sopravvive alla nostra vita. Dimentichiamo che contano anche i gesti, le azioni e le proposizioni.

John MacLean, con “Outthinking the Rectangle” si propone di lavorare a favore e contro la fotografia. Il suo progetto fotografico, composto da una serie di osservazioni, superfici, spazi e gesti, stuzzica uno spazio oltre i suoi bordi e le geometrie convenzionali – uno spazio in cui l’immagine è attiva e travalica le sue forme.

Le possibilità che esplora – rompendo, tagliando, estraendo, piegando, riorganizzando – portano l’immagine risultante oltre una malinconica stasi con la rappresentazione e il passato. Ciò che emerge è una ricerca di strategie critiche che cercano di approssimare o tentare di rivelare ciò che viene spesso definito “reale”.

Le fotografie in genere rivendicano la realtà attraverso la loro immediatezza e la presenza apparentemente non mediata. Questo è, in effetti, un errore: le fotografie sono media e la mediazione è centrale.

In questo progetto fotografico MacLean va alla ricerca di nuove possibilità e nuovi modi di guardare. Tutto inizia con un’immagine che pensiamo di conoscere, per poi scoprire che non finisce lì. Ci indirizza ripetutamente verso qualcosa di misterioso. Un bordo vignettato viene riorganizzato per diventare un orizzonte centrato; una limousine è tagliata più corta e quindi ritorna alla sua dimensione originale, con tanto spazio lasciato lato; le zone di messa a fuoco del mirino si trovano bruciate sulla superficie di una strada. Tutto ciò dimostra che lo strumento fotografico agisce nel quotidiano con effetti concreti e spesso comici.

Nel progetto fotografico “Outthinking the Rectangle” MacLean usa intenzionalmente il bianco delle foto in maniera ambigua: inizia con la “tela” bianca, o il bordo bianco della stampa. Il bianco delimita l’immagine e influenza tutto ciò che è contenuto all’interno.

I fotografi, di solito, stampano cieli monocromatici piatti in toni più scuri, per separare l’immagine dal bianco della carta; gli oggetti bianchi vividi sono sottoesposti in modo che la carta definisca ancora il limite dell’immagine. Anche quando il bianco è bianco, è sempre saturo di informazioni, anche se non ne fornisce.

“Outthinking the Rectangle” è un progetto fotografico realizzato in un momento in cui la fotografia ha iniziato ad avere influenze e contaminazioni. Ma le immagini di MacLeon non escono dal campo della fotografia, ma piuttosto mostrano come il mezzo coinvolga necessariamente lo spazio che occupa, sulla pagina e nel mondo. Affermare il contrario significherebbe suggerire che un dettaglio tagliato da una fotografia non è più reale. Ma la fotografia stessa taglia e frammenta.

MacLean strappa il controllo della fotografia alla tecnologia. Con questo progetto fotografico afferma: “Dobbiamo tornare a creare le immagini, prima di tutto: pensare all’immagine prima di scattare”.

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